l'analisi

Furto di file, la Cassazione mette i paletti: portata e limiti di una sentenza innovativa

Con una recente sentenza, la Cassazione ha confermato la condanna per appropriazione indebita nei confronti di un dipendente che prima di lasciare il posto di lavoro ha copiato i file del Pc aziendale restituendolo formattato. La sentenza è senz’altro innovativa ma non è un punto di arrivo definitivo. Vediamo perché

Pubblicato il 20 Apr 2020

Massimo Borgobello

Avvocato a Udine, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, PHD e DPO Certificato 11697:2017

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La tutela penale relativa alla proprietà e al possesso dei file è un tema delicato e non agevole per i non addetti ai lavori: se per un informatico è ovvio che si possa rubare un file o che ce ne si possa appropriare, per la dottrina e la giurisprudenza penalistiche maggioritarie non sono configurabili i reati di furto ed appropriazione indebita di file. Almeno non lo erano, fino alla sentenza della Cassazione depositata il 13 aprile 2020. Ma la questione resta aperta.

Il “caso” da cui trae origine il processo

La situazione di fatto che ha determinato l’importante arresto giurisprudenziale è banale quanto all’ordine del giorno nelle software house (e non solo): un dipendente, pronto per lasciare il proprio posto di lavoro, copia i file del portatile aziendale che ha in uso, restituendolo del tutto formattato ed impedendo, così, il backup delle e-mail aziendali.

Denunciato, viene condannato in primo grado per i reati di cui agli artt. 635 quater (danneggiamento di sistemi informatici o telematici) e 646 Codice penale (appropriazione indebita).

In grado di appello viene assolto per il reato di danneggiamento dei sistemi informatici ma condannato per l’appropriazione indebita dei files contenuti nel portatile.

Ricorre quindi per cassazione, chiedendo di essere assolto, perché i dati informatici non sono suscettibili di appropriazione indebita, in quanto non rientranti nella definizione di cose mobili.

La Cassazione, modificando un orientamento consolidato, ha confermato la condanna per appropriazione indebita, affermando che i file sono cose mobili con dieci pagine di motivazione: tutti i precedenti in materia (o quasi), infatti, avevano sempre negato che i file potessero rientrare nella categoria di “cosa mobile”.

La questione

Per quanto non di immediata comprensione per il cittadino, la questione di diritto appare chiara al penalista: è cosa mobile solo quello che può essere oggetto di “materiale apprensione”. In altre parole, solo ciò che è caratterizzato da una materialità e fisicità, definibile nello spazio e suscettibile di essere spostato da un luogo ad un altro.

Per questa ragione è sempre stato ritenuto non configurabile il furto di files per “copiatura” non autorizzata, perché in queste ipotesi manca la perdita del possesso dei files stessi da parte del legittimo possessore.

Dato che il delitto di furto prevede che il reo si impossessi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi le detiene (art. 624 Codice penale), nel caso di chi copi abusivamente i files di proprietà altrui senza danneggiarli non vi è sottrazione penalmente rilevante.

Allo stesso modo, per la giurisprudenza maggioritaria, i beni immateriali non potevano essere l’oggetto materiale del reato di appropriazione indebita (art. 646 Codice penale).

Il paradosso è che, al contrario, per gli orientamenti giurisprudenziali citati, i reati di furto o appropriazione indebita erano pacificamente configurabili nelle ipotesi in cui i files o altri beni immateriali fossero stati sottratti unitamente al supporto (cartaceo o hardware) di proprietà o nel possesso della persona offesa.

L’assurdo logico è evidente: pene molto severe (per entrambi i reati richiamati la pena massima è tre anni di reclusione, salvo aggravanti) a fronte della sottrazione del supporto, potenzialmente privo di valore economico e, al contrario, nessuna tutela a fronte di un danno patrimoniale anche elevatissimo, ossia il furto di proprietà intellettuale di vario genere.

Evidente, quindi, che il vuoto di tutela andava, in qualche modo, colmato.

La questione, tuttavia, non poteva essere liquidata per una ragione dogmatica molto rilevante per i penalisti, ossia l’elaborazione dottrinale del concetto di “cosa mobile”, stratificato in decenni di scritti giuridici e sentenze.

Va detto, a questo punto, che i concetti giuridici “variano” la loro portata a seconda delle “materie” in cui si collocano: il concetto penalistico di possesso, ad esempio, è più ampio del suo omologo civilistico. Il primo ricomprende anche la detenzione, mentre il secondo ne è separato, distinto e presupposto.

La ragione è semplice: il legislatore penale ha finalità diverse da quello civile e un concetto derivato dall’utilizzo di un determinato termine può dover avere portate diverse, in ragione delle diverse esigenze normative.

La Cassazione, quindi, ha affrontato la questione sulla base dei precedenti giurisprudenziali – contrari – e delle ragioni giuridiche che imponevano una rivisitazione della categoria “cosa mobile”.

Partendo dal presupposto del minimo indefettibile per il concetto di cosa mobile per la dottrina penale, ossia materialità e fisicità dell’oggetto, la Cassazione ha analizzato la nozione comunemente accolta di file nelle specifiche Norme Iso (ossia la ISO/IEC 2382-1:1993), per cui file è “l’insieme di dati, archiviati o elaborati, cui sia stata attribuita una denominazione secondo le regole tecniche uniformi”.

Da qui l’analisi della dottrina più moderna, per cui bit e byte non sono entità astratte, ma dotate di una propria fisicità, poiché occupano uno spazio (memoria) fisicamente quantificabile.

Tali considerazioni permettono di superare il maggiore ostacolo logico, ossia la – ritenuta – impossibilità di percepire il file dal punto di vista sensoriale.

Da qui in poi la sentenza della Cassazione deve necessariamente cercare di far evolvere la teoria generale per cui una cosa mobile, per essere oggetto di furto o appropriazione indebita, deve poter essere oggetto di “materiale apprensione”.

Ancora una volta la dottrina più recente è richiamata perché fa giustamente osservare come un file possa essere “trasferito da un supporto informatico ad un altro” e come lo stesso denaro, in molte ipotesi, possa essere oggetto di appropriazione, pur essendo “smaterializzato” (si pensi all’ovvio esempio dei conti correnti bancari).

Da ultimo viene richiamata la disposizione per cui ai fini della legge penale è bene mobile anche l’energia elettrica (suscettibile di sottrazione ai sensi dell’art. 624, comma 2, Codice penale).

La Cassazione, infine, richiama – correttamente – la sentenza n. 414/1995 della Corte costituzionale, che indica le modalità logico-giuridiche attraverso le quali adeguare il significato di un concetto giuridico all’evoluzione storica e scientifica del periodo storico in cui il concetto stesso è utilizzato.

In conclusione, il reato di appropriazione indebita di files è configurabile anche in assenza della sottrazione del relativo supporto informatico.

La rilevanza della sentenza del 13 aprile 2020

La questione, come detto, era aperta e andava affrontata.

Gli argomenti portati dalla sentenza commentata sono validi e potranno essere portati anche in seguito per situazioni relative ad altri beni immateriali ma con elevato valore economico.

Si pensi, ad esempio, ai bitcoin o a quanto economicamente rilevante sia inserito in blockchain in generale.

A parere di chi scrive, tuttavia, la sentenza – innovativa – non è ancora un punto di arrivo definitivo.

In primo luogo, non è a “Sezioni Unite”, ma è stata emessa dalla Seconda sezione: questo significa che non ha valore di precedente “vincolante” per la giurisprudenza.

In secondo luogo – va detto – la tutela penale dei beni immateriali ed informatici andrebbe regolamentata con normativa ad hoc, capace di recepire le concrete ed effettive esigenze di un settore ormai autonomo – quello digitale – che richiede uno sforzo intellettuale, da parte del legislatore, superiore al mero richiamo alle categorie generali del diritto applicate all’ambiente web o all’informatica in generale.

I reati configurabili, cosa prevedono e quando è necessaria la querela

Premesso quanto sopra – e cioè che a parere di chi scrive la sentenza n. 11959/2020 non è un punto di arrivo definitivo – è utile sapere come funzionano le tutele penali per quanto attiene alla sottrazione di files, nelle sue varie accezioni.

L’art. 646 Codice penale punisce con la reclusione fino a tre anni chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso.

La pena è aumentata se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario.

È un reato punibile a querela della persona offesa, entro il termine di tre mesi dal fatto o dal momento in cui si è venuti a conoscenza del fatto.

L’ipotesi in ambiente digitale è quella del dipendente o del socio che copia dei dati per riutilizzarli a proprio vantaggio.

È verosimile che possa, inoltre, configurarsi anche il furto di files: in questo caso però gli stessi non devono essere nella materiale disponibilità del reo.

L’art. 624 Codice penale, infatti punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni la condotta di chi si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene, per trarne profitto per sé o per altri.

Anche in questo caso è necessaria la querela, salvo che il fatto non sia aggravato ai sensi dell’art. 625 Codice penale.

È un’ipotesi che potrebbe verificarsi nei casi di download di dati contro la volontà del proprietario: ipotesi che, tuttavia, può determinare anche una serie di altri reati (su tutti: l’accesso abusivo a sistemi informatici di cui all’art.615 ter Codice penale)

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